La sanatoria? Un flop. Solo 150.000 domande, pochissime dal settore agricolo

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Nonostante la proroga concessa fino al 15 agosto per facilitare la procedura e permettere a molti richiedenti di poter fare domanda, la regolarizzazione fortemente voluta dalla ministra per le Politiche Agricole, Teresa Bellanova, non ha ottenuto i risultati sperati.

I dati definitivi mostrano infatti come la misura introdotta nel Decreto Rilancio, presentato dal governo “Conte bis” e approvato in Parlamento, abbia ottenuto molte meno domande di regolarizzazione rispetto a quanto si aspettavano PD, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Liberi e Uguali, ovvero le forze politiche che compongono l’attuale maggioranza di governo.

L’obiettivo iniziale, stando a quanto dichiarato dalla stessa Bellanova, era raggiungere la considerevole quota di 600.000 domande, prevedendo che molte di queste sarebbero arrivate dal settore agricolo. L’intenzione del governo era infatti proprio quella di arrivare ad un’emersione del lavoro in nero, diffusissimo in agricoltura (dove il caporalato è una vera e propria piaga, ndr) ma anche nel settore domestico.

Al 31 luglio 2020 le domande per il permesso di soggiorno sono in tutto 148.594, di cui 128.179 riguardano i rapporti di lavoro domestico e solo 19.875 sono invece relative ad agricoltura e pesca.

Nelle ultime due settimane di agosto i numeri saranno certamente cresciuti, ma in attesa dei dati definitivi si può tranquillamente affermare che le stime del governo sono state completamente disattese, specialmente per quanto riguarda il settore agricolo.

Per gli esperti, tra le cause principali che hanno portato ad un numero di domande di permesso di soggiorno decisamente inferiore alle aspettative c’è sicuramente il contributo forfettario di 500 euro a carico del datore di lavoro per ogni dipendente da regolarizzare (nel caso di dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare bisogna anche aggiungere il pagamento delle somme dovute a titolo retributivo, contributivo e fiscale, ndr) ma anche la difficoltà per i richiedenti di poter dimostrare di aver lavorato fino all’8 marzo 2020 (spesso senza contratto e ovviamente alcuna tutela).

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